gennaio 19, 2013

Politica industriale, da dove ripartire.

di Attilio Pasetto (http://www.eguaglianzaeliberta.it/articolo.asp?id=1584)

Dum Romae consulitur Saguntum expugnatur. Mentre i partiti si stanno azzuffando come si conviene in campagna elettorale, l’economia reale continua a precipitare. Alla faccia di chi intravede segnali di luce in fondo al tunnel (fine 2013?). In realtà, questi fantomatici segnali di luce sono così tenui da assomigliare ai lumini del cimitero. L’ultimo dato Istat mostra una caduta a novembre della produzione industriale dell’1% rispetto a ottobre e del 7,6% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Dall’inizio del 2012 la contrazione dell’attività produttiva risulta pari al 6,6% ed è probabile che attorno a questa cifra si chiuderà il dato definitivo dell’anno scorso.

Lo scorso 8 gennaio dalle colonne del Sole 24Ore il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi ha lanciato un appello per il rilancio della politica industriale dopo le elezioni. In questa legislatura in effetti è mancato un vero disegno di politica industriale. Il governo Monti in particolare ha varato una serie di interventi anche utili, ma frammentati, sia in campo energetico sia in quello degli incentivi alle imprese.

Tra i primi vanno compresi la definizione di una Strategia Energetica Nazionale a valere fino al 2020, la liberalizzazione del mercato del gas con la perdita del controllo di Snam da parte di Eni, il riordino degli incentivi sulle energie rinnovabili elettriche e termiche, la liberalizzazione del mercato dei carburanti. Tra i secondi vanno ricordati l’introduzione dell’Ace (allowance for corporate equity, misura che assegna un beneficio fiscale alle imprese che optano per aumentare il capitale proprio anziché l’indebitamento), il potenziamento del fondo centrale di garanzia, il ripristino dell’Istituto per il Commercio Estero soppresso da Tremonti, l’Agenda digitale, le misure per la nascita e lo sviluppo di start up innovative, l’istituzione del Desk Italia per l’attrazione degli investimenti esteri diretti. Va sottolineato che molti di questi provvedimenti non sono ancora operativi, perché in attesa dei decreti attuativi.

La necessità di un progetto di politica industriale organico e coerente è sentita da più parti: non solo dagli industriali ma anche dai sindacati e da quanti hanno a cuore il futuro del Paese. Oltre ad affrontare l’emergenza ormai quotidiana delle aree e dei settori di crisi (come i casi Alcoa e Ilva), vi sono tre temi di fondo su cui il nuovo governo dovrà misurarsi: l’energia, gli incentivi alle imprese, i divari territoriali.

In tema di energia, i numerosi provvedimenti adottati dal governo Monti, se hanno allontanato l’opzione nucleare cavalcata dal governo Berlusconi, non hanno però indicato una scelta chiara tra fonti rinnovabili e idrocarburi. Da una parte, il sostegno al fotovoltaico e alle altre energie rinnovabili non ha avuto una direttrice di marcia lineare e alla fine ha finito con il lasciare senza bussola sia il settore sia gli stessi utenti. Dall’altra, si è guardato con crescente interesse allo sfruttamento degli idrocarburi presenti sotto il suolo e nei mari italiani, con due grossi punti interrogativi: uno ecologico, specie per quanto riguarda il timore di eventuali guasti in mare che potrebbero avere conseguenze nefaste su tutto il Mediterraneo, e uno economico, in quanto l’intento prevalente del governo sembrerebbe più quello di fare cassa che non di alleviare il costo della bolletta energetica per i cittadini. Per sciogliere questo nodo il futuro governo dovrà tener conto in maniera appropriata delle ricadute derivanti dalla scelta che verrà operata. Affidarsi agli idrocarburi significa evidentemente perpetuare il vecchio modello produttivo, mentre puntare sulle energie rinnovabili, oltre ad avere un impatto molto rilevante sulla filiera della green economy, può mettere in moto una serie di innovazioni di processo volte a ristrutturare i sistemi produttivi delle imprese. Una cosa del genere sta avvenendo in Germania, con politiche orientate verso il green che trovano rispondenza in nuovi investimenti e modifiche organizzative da parte delle aziende. Senza contare, a livello ancor più generale, gli effetti positivi sulla qualità della vita di tutti i cittadini, in termini di ambiente più pulito, trasporti meno inquinanti, città più vivibili.

Il secondo nodo è quello degli incentivi alle imprese. Il ministero dello Sviluppo economico ha disposto il riordino degli stessi, ma il decreto attuativo è fermo al ministero dell’Economia, che deve esprimersi sul testo. Secondo la bozza di riforma, dovrebbe nascere un Fondo unico a carattere rotativo, dotato di 600 milioni per il primo anno. La destinazione di tali risorse dovrebbe avere tre priorità: la ricerca e sviluppo, il rafforzamento della struttura produttiva del Paese, l’internazionalizzazione sia in uscita sia in entrata (attrazione degli investimenti stranieri). Il vero problema è costituito dal fatto che il disegno di riordino degli incentivi si scontra con i tagli sulle agevolazioni alle imprese di cui si è occupata, nell’ambito della spending review, la Commissione Giavazzi. Secondo la filosofia ispiratrice dei lavori della Commissione, le agevolazioni alle imprese dovrebbero essere erogate sotto forma di credito d’imposta ed andare in due direzioni: il sostegno alla ricerca e la riduzione del cuneo fiscale. E’ quindi da questo dilemma – razionalizzare la struttura degli incentivi, lasciando però un ampio spettro degli stessi oppure concentrare le risorse su pochissimi obiettivi ben selezionati – che dovrà partire l’operato del nuovo governo. Una scelta indubbiamente non facile da fare, ma importante per dare un quadro di riferimento certo alle imprese e prospettive di crescita al Paese.

Terzo tema è quello dei divari territoriali, che si collega a quello del rapporto fra Stato e enti locali. Un tema molto denso e complesso, che investe i vari aspetti del decentramento e delle autonomie. Da più parti si invita il futuro governo a tornare sulla riforma del Titolo V della Costituzione, premessa indispensabile per capire la disponibilità effettiva delle risorse presenti sul territorio, in base alle quali disegnare le strategie di crescita territoriale. Resta in primo piano – anche se l’argomento sembra essere passato di moda – il problema del divario tra Centro-Nord e Mezzogiorno, ampliatosi ulteriormente negli ultimi anni. Nei programmi dei partiti non se ne parla per niente, ma il gap che separa le due aree pesa come un macigno sullo sviluppo del Paese e non potrà non essere affrontato da un governo seriamente intenzionato a rilanciare la crescita. 

(http://www.eguaglianzaeliberta.it/articolo.asp?id=1584)

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