marzo 29, 2014

OSTEOPATIA E CONFUSIONE DI STATO

OSTEOPATIA E CONFUSIONE DI STATO

di Giorgio Pasetto

Prendo spunto da una risposta scritta, ad una interrogazione in V Commissione della Sig.ra Binetti, per evidenziare la confusione totale che regna nel nostro paese relativamente alle professioni sanitarie ed affini.

Atto Camera Interrogazione a risposta in commissione 5-01832 presentata da BINETTI Paola testo di Giovedì 9 gennaio 2014, seduta n. 148 BINETTI. — Al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che: si calcola in oltre 2 milioni il numero degli italiani che complessivamente si rivolgono agli osteopati e ai chiropratici per varie sindromi dolorose del sistema osteo-artro-muscolare. Ma il problema delle manipolazioni vertebrali richiede competenze specifiche, che non è possibile accertare in queste figure che si muovono nell’area sanitaria per la carenza di regole, legata al mancato riconoscimento di questa professione; tuttavia, non sono poche le controversie legali che i pazienti hanno intrapreso nei confronti di osteopati e chiropratici nella convinzione che il trattamento subito abbia peggiorato la loro condizione, senza indurre miglioramenti di nessun tipo. In non pochi casi si tratta di un vero e proprio abuso di professione medica, perché la mancanza di formazione in tal senso non consente di fare una diagnosi accurata né quindi di predisporre un trattamento coerente con la stessa; l’associazione italiana chiropratici sostiene che non sia necessaria nessuna diagnosi medica e che sia più che sufficiente la diagnosi funzionale che viene fatta, finalizzandola al trattamento chiropratico, in una sorta di circolo chiuso che dovrebbe garantire malato e professionista. Ma non è così e di fatto osteopati e chiropratici non sono in grado di prendersi la responsabilità legale né della diagnosi né del trattamento; la questione appare del tutto chiara se si tiene conto dell’assoluta diversità dei percorsi formativi seguiti dai chiropratici e dagli osteopati: si passa da corsi brevi, a volte brevissimi, a corsi biennali, che possono essere rivolti a personale privo di diplomi che garantiscano conoscenze e competenze di natura sanitaria. In nessun caso si tratta di corsi riconosciuti perché manca una qualsiasi normativa del settore. In pochissimi casi sono dei master, che si svolgono in ambito universitario, e sono rivolti a personale medico; mancano gli standard qualitativi che possano rappresentare per i pazienti le garanzie necessarie e che consentano loro di scegliere la persona a cui rivolgersi sulla base di requisiti ben definiti. Il passa parola è la modalità più frequente e spesso sono gli stessi medici che, davanti a un dolore cronico difficilmente risolvibile, orientano i pazienti in un senso o nell’altro; non indifferente è anche la questione economica perché ogni seduta ha un costo medio che oscilla tra i 70 e i 90 euro, ovviamente non rimborsabili e totalmente a carico del paziente; la legge finanziaria del 2008 ha istituito un registro ufficiale aperto ai laureati in chiropratica, senza che in Italia sia mai stato attivato un corso di laurea di questo tipo, creando quindi una ulteriore forme di confusione nel già complesso mondo delle professioni sanitarie –: se e come il Ministro intenda definire il profilo professionale dell’osteopata e del chiropratico, fissando precisi standard per la sua formazione e precisando se sia necessario un corso di laurea ad hoc o non piuttosto un master da conseguire dopo un corso di laurea triennale o lo stesso corso di laurea in medicina e chirurgia; se e come si debba intervenire per evitare i possibili abusi della professione medica. (5-01832) Atto Camera Risposta scritta pubblicata Mercoledì 12 marzo 2014 nell’allegato al bollettino in Commissione XII (Affari sociali) 5-01832 Il Ministero della salute è attivo da tempo nei riguardi delle questioni e dei vari aspetti concernenti la professione di chiropratico. Nell’ambito delle medicine e delle pratiche «non convenzionali», la chiroprassi riveste un ruolo peculiare: essa è da tempo praticata in Italia, per lo più, da parte di operatori che hanno conseguito la laurea all’estero. Tale disciplina, rappresenta una delle forme di terapia manuale, rientrante nell’attività dell’area della riabilitazione, più diffuse e praticate nel mondo, come nel Regno Unito, U.S.A, Canada, dove è riconosciuta legalmente, con il relativo percorso formativo (che porta al conseguimento della laurea), diverso da quello previsto per l’ottenimento della laurea in medicina e chirurgia. Come evidenziato nell’interrogazione parlamentare in esame, la legge 24 dicembre 2007, n. 244 (finanziaria 2008), al comma 355 dell’articolo 2, ha istituito la professione sanitaria di chiropratico, affidando al Ministero della salute il compito di emanare un regolamento di attuazione. La citata norma, tuttavia, presentava alcune criticità che la rendevano di difficile implementazione, anche in relazione alla sua compatibilità con il sistema generale delle professioni sanitarie. Innanzi tutto, essa non ha delineato il profilo professionale del chiropratico e non ha indicato quali attività egli può porre in essere, demandando la questione ad un regolamento di attuazione da emanarsi entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge. Inoltre, la stessa normativa ha previsto l’istituzione presso il Ministero della salute di un registro dei chiropratici, la cui iscrizione è riservata ai possessori del diploma di laurea magistrale in chiropratica o titolo equivalente. Tale previsione risulta, al momento, sostanzialmente inapplicabile, in quanto allo stato attuale detto corso di laurea non risulta attivo presso nessuna università, né è stato elaborato il relativo ordinamento didattico. Infatti, non risulta possibile stabilire quale laurea straniera è da considerarsi equipollente fin quando non si disponga del parametro di riferimento nazionale, costituito, appunto, dall’ordinamento didattico. Questo Ministero, al fine di istituire la professione sanitaria di chiropratico, ha avviato con il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca e con il Ministero dell’economia e delle finanze, un’attività istruttoria finalizzata all’elaborazione di un articolato che, modificando l’articolo 2, comma 355, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, ne eliminasse le descritte criticità. È stata, quindi, formulata una bozza di norma per la disciplina della figura professionale del chiropratico. L’articolato in questione è stato oggetto di ampia disamina: il Ministero dell’economia e delle finanze ha formulato osservazioni in merito alla invarianza degli oneri per la finanza pubblica derivanti dall’attuazione delle disposizioni relative all’istituzione della figura professionale del chiropratico, in particolare per quanto riguarda l’attivazione dei corsi di laurea. In riferimento a tale rilievo il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca e il Ministero della salute hanno fornito chiarimenti condivisi, evidenziando che l’articolato in questione non comportava un aggravio di spesa in quanto le università, nell’ambito della loro autonomia, possono attivare corsi di laurea con le risorse disponibili, a prescindere dall’esistenza e dalla formale regolamentazione di una professione sanitaria. Nonostante i suddetti chiarimenti, il Ministero dell’economia e delle finanze ha ribadito la sussistenza di perplessità in merito all’assenza di ulteriori oneri per la finanza pubblica relativamente alla formazione universitaria. La proposta, pertanto, non ha potuto avere seguito. Questo Ministero, inoltre, con l’intento di fornire un fattivo contributo per l’attivazione dei corsi, ha inviato al Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca un documento concernente l’ordinamento didattico «standard», che risulta essere applicato ai percorsi formativi negli Stati dove detta figura professionale viene regolamentata, assicurando ogni collaborazione per la definizione dell’ordinamento didattico. Per quanto concerne l’osteopata, questo Ministero si è più volte espresso, anche verso l’Ente Nazionale Italiano di Unificazione di Normazione, affermando che le attività svolte dall’osteopata rientrano nel campo delle attività riservate alle professioni sanitarie. In merito all’Ente sopra menzionato, si fa presente che la legge 14 gennaio 2013, n. 4 «Disposizioni in materia di professioni non organizzate», disciplina le professioni non organizzate in ordini o collegi che svolgono attività economica, anche organizzata, volta alle prestazioni di servizi o di opere a favore di terzi, esercitata abitualmente e prevalentemente mediante lavoro intellettuale, o comunque con il concorso di questo, con esclusione delle attività riservate per legge a soggetti iscritti in albi o elenchi ai sensi dell’articolo 2229 c.c., delle professioni sanitarie ed altre attività. La normativa prevede che le professioni di cui sopra possono costituire associazioni a carattere professionale di natura privatistica, possono riunirsi in forme aggregate e collaborano all’elaborazione della normativa tecnica relativa alle singole attività professionali. Il Ministero dello sviluppo economico svolge compiti di vigilanza sulla corretta attuazione delle disposizioni prescritte dalla legge n. 4/2013. Da ultimo, per quanto concerne l’intervento «per evitare i possibili abusi della professione medica» si assicura che questo Dicastero è quanto mai vigile rispetto a tale problematica e si propone sempre, per quanto possibile, come parte attiva nel contrasto agli illeciti dei soggetti non autorizzati all’esercizio delle professioni sanitarie, attivando il Comando Carabinieri per la Tutela della Salute per lo svolgimento dei controlli ad esso deputati. In caso di accertato esercizio abusivo, viene immediatamente investita della questione l’Autorità Giudiziaria. La responsabilità penale degli Osteopati (con cenni ad altre medicine “non convenzionali”) a cura di Fabrizio Mastro (avvocato del Foro di Torino) con la collaborazione dell’avv. Caterina Biafora I reati che possono prevalentemente configurarsi in capo a coloro che esercitano la professione di osteopata sono: l’abusivo esercizio della professione medica, le lesioni personali colpose o dolose, l’omicidio colposo o preterintenzionale e la violenza privata. Quello che merita maggiore attenzione è sicuramente il delitto previsto dall’art. 348 CP che sanziona la condotta di chi esercita abusivamente “una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato”. La richiamata disposizione presuppone necessariamente l’esistenza di altre norme giuridiche integrative del precetto penale che qualificano una determinata professione, prescrivono una speciale abilitazione dello Stato e dispongono l’iscrizione in un apposito albo; con ciò configurando le cosiddette “professioni protette” in difetto delle quali non è permesso l’esercizio di determinate attività professionali con la conseguenza che la loro violazione si risolve in violazione della norma incriminatrice. L’abuso di cui all’art. 348 CP consiste, pertanto, proprio nell’esercizio di una professione, per la quale lo Stato richieda speciale abilitazione, da parte di chi non l’abbia conseguita. La disposizione in oggetto non potrà però essere applicata nelle ipotesi in cui manchi una precisa normativa giuridica che definisca un’attività come professione, prescriva l’abilitazione dello Stato e imponga l’iscrizione all’albo per il suo esercizio, in quanto il disinteresse del legislatore verso una determinata professione -quale ad esempio l’osteopatia- non può essere colmata dal Giudice con la prescrizione di regole generali ed astratte. Sul punto, in materia di chiropratica, si è espressa anche la Corte Costituzionale con l’ordinanza n.149 del 1988 precisando che il codice civile affida appunto alla legge la determinazione delle professioni intellettuali per le quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi o elenchi e che, pertanto, a fronte del disinteresse della legge ordinaria non può avere nessun rilievo neppure il fatto che la chiropratica possa essere qualificata come professione e ciò sino a quando lo Stato non riterrà di disciplinarla e di richiedere per il suo esercizio una speciale abilitazione. La Corte Costituzionale con il medesimo provvedimento ha, altresì, chiarito che la chiropratica è qualificabile come lavoro professionalmente tutelato ai sensi del primo comma dell’art. 35 Cost.8 in base al quale il lavoro è salvaguardato dalla Repubblica in tutte le sue forme ed applicazioni e come iniziativa privata libera riconosciuta dall’art. 41 Cost.9; ne consegue, quindi, che l’art. 348 CP risulta assolutamente inapplicabile perché il fatto non è preveduto dalla legge come reato. Di recente il Tribunale Amministrativo Regionale del Veneto, Sezione III, con ordinanza 9–17 maggio 2007, n. 298 ha, tra l’altro, sottolineato che allo stato – non essendo le prestazioni afferenti all’osteopatia espressamente qualificate attività medica (e, come tali, regolamentate), devono ritenersi liberamente esercitabili. Si osserva che la Sezione Sesta della Corte di Cassazione, con la sentenza del 21 luglio 2003, ha ritenuto opportuno precisare come dalle considerazioni della Corte Costituzionale contenute nell’ordinanza n. 149 del 1988 sopra richiamata si debba, comunque, dedurre che il “disinteresse” dell’ordinamento italiano per la chiropratica, è sempre valido sino a quando l’attività posta in essere in concreto dal chiropratico non richieda il compimento di “operazioni” che solo chi è abilitato all’esercizio della professione medica può lecitamente eseguire; ne consegue, quindi, che tale medicina non convenzionale è liberamente esercitabile da parte del chiropratico purché non invada l’ambito di competenza del medico, professionista abilitato e penalmente tutelato dall’art.348 CP. La giurisprudenza di legittimità si è pronunciata in questo senso anche con riferimento alle altre pratiche rientranti nella cosiddetta “medicina alternativa”. La rilevanza penale dell’osteopatia in relazione al delitto di cui all’art. 348 CP, perciò, dipende prevalentemente dalla concezione di “professione medica” -attività spettante ai professionisti abilitati- con la conseguenza che il suo esercizio in mancanza dell’abilitazione statale e dell’iscrizione all’albo professionale integra il reato di abusivo esercizio della professione. La configurabilità del predetto delitto in capo all’osteopata richiede, pertanto, sotto il profilo oggettivo l’accertamento di una condotta costituente espletamento di professione medica. La determinazione degli atti rientranti nell’esercizio professionale esclusivo del medico presenta molte difficoltà ed incertezze perché in difetto di una disciplina legislativa regolatrice della “professione dell’osteopata” e in assenza all’interno del nostro ordinamento giuridico di una nozione di “atto medico” non è possibile individuare con precisione il concetto di “professione medica” e, quindi, neppure i limiti tra le attività proprie dell’osteopata e quelle riservate a coloro i quali oltre ad aver conseguito la laurea in medicina e superato i prescritti esami di abilitazione, risultino iscritti nell’apposito albo professionale. In mancanza di specifiche norme legislative o regolamentari è evidente, pertanto, che tutte le questioni dubbie relative al preteso esercizio abusivo della professione medica da parte dell’osteopata sono rimesse al prudente apprezzamento del Giudice il quale caso per caso dovrà verificare se le attività svolte dall’osteopata siano o meno di competenza esclusiva del medico. Quanto maggiore risulterà l’ambito della sfera professionale riservata ai medici individuato dalla giurisprudenza tanto più ristretti saranno gli spazi per lo svolgimento delle pratiche terapeutiche “non convenzionali” e, dunque, dell’osteopatia. La magistratura nel dirimere le incertezze relative all’individuazione del settore operativo proprio della professione medica dovrà prendere in considerazione soprattutto la ratio legis 14, ovvero le ragioni che hanno indotto il legislatore a prescrivere l’abilitazione per l’esercizio della professione medica, ossia l’esigenza di evitare i pregiudizi che potrebbero conseguire dall’esercizio delle attività sanitarie da parte di chi sia privo delle necessarie cognizioni tecnico scientifiche, ovvero di quel minimo standard di qualificazione professionale e morale necessario per l’espletamento dell’attività sanitaria; quest’ultima -vista l’importanza che riveste nella società- risulta, infatti, potenzialmente pericolosa per la vita, l’integrità e la salute dei cittadini 15 se esercitata da soggetti privi di competenze specifiche che si presume, invece, abbiano coloro che dopo aver conseguito la laurea in medicina e chirurgia abbiano superato anche l’esame per l’abilitazione della professione medica. La norma di cui all’art. 348 CP intende assicurare, quindi, il buon andamento della Pubblica Amministrazione, e tutelare così l’interesse generale della collettività a che determinate attività professionali richiedenti speciali garanzie -come quella sanitaria- non siano lasciate al “libero” esercizio di chiunque lo desideri e, dunque, l’interesse pubblico al regolare svolgimento delle professioni per le quali sono richieste una speciale abilitazione e la iscrizione all’albo. Al fine di determinare se una determinata attività esercitata dall’osteopata sia riconducibile a quella medica e, quindi, atta ad integrare la condotta costitutiva del reato di cui all’art. 348 CP occorre, dunque, prendere in considerazione la nozione di “atto medico” elaborata dalla giurisprudenza. In tale materia si registrano però orientamenti diversi. Alla stregua di un primo indirizzo, ai fini della configurabilità del delitto in esame, sarebbero rilevanti solamente gli “atti tipici” quelli propri della professione medica, che in base al D.P.R. 5 aprile 1950 n. 221 può essere esercitata solo da chi oltre ad aver conseguito la laurea in medicina e chirurgia e l’abilitazione statale, risulta essere iscritto nell’albo apposito. Secondo un altro orientamento giurisprudenziale sarebbero, invece, idonei ad integrare la condotta abusiva della professione medica tutelata dall’art. 348 CP oltre agli “atti tipici” pure tutti gli atti necessari o utili che possono precederli, accompagnarli o seguirli in quanto strumentalmente connessi ai primi. Questi ultimi vengono definiti atti “caratteristici” dell’attività professionale medica anche se possono essere liberamente compiuti da qualsiasi persona. Tuttavia, tali atti per avere rilevanza ai fini della configurabilità del delitto in questione debbono essere esercitati in modo continuativo e professionale. Secondo tale orientamento sarebbero, infatti, esclusi dalla nozione di “atti medici ” soltanto quelli “caratteristici” espletati occasionalmente e gratuitamente. Ne consegue che il primo indirizzo giurisprudenziale, essendo contrario ad una interpretazione estensiva del concetto di “atto medico”, è certamente più favorevole per l’osteopata. Alla stregua delle premesse di detto orientamento è stato affermato quanto segue: 1. la professione medica si sostanzia nell’esercizio di uno o più atti riservati in modo esclusivo all’attività professionale; 2. l’attività medica avendo fondamenti scientifici deve essere riservata esclusivamente a professionisti iscritti in appositi albi. Ne consegue, pertanto, che secondo la Cassazione solo gli atti che implicano una competenza scientifica saranno riservati ai medici e godranno della tutela penalistica ex art. 348 CP; 3. deve essere considerata manifestazione dell’arte sanitaria sia la diagnosi che viene fatta di specifiche alterazioni organiche o di disturbi funzionali del corpo o della mente che l’indicazione al paziente o la diretta prestazione di strumenti curativi diretti ad eliminare o ridurre le disfunzioni patologiche del corpo e della mente. In considerazione di ciò la professione medica è, quindi, quella caratterizzata da un’attività di diagnosi delle malattie, di prognosi e di terapia; 4. non è tanto il nomen della professione esercitata a designare il tipo di attività come corrispondente a quella esclusiva del medico, ma le operazioni in concreto eseguite da chi è sprovvisto dell’abilitazione della professione medica. Tale considerazione contenuta nella sentenza della Cassazione del 20.06.2007 è stata citata dal Tribunale di Casale Monferrato in una sentenza del 2008 con quale ha assolto un osteopata accusato di esercizio abusivo della professione medica; 5. gli atti dell’osteopata per sostanziarsi in veri e propri atti medici dovrebbero consistere con riferimento all’anamnesi in una approfondita indagine ricognitiva familiare, personale remota e personale prossima, funzionale ad una descrizione della situazione del paziente, la più completa possibile e caratterizzata dall’utilizzo della precisa terminologia medica, in relazione alla diagnosi nella indicazione di una patologia riconosciuta e convenzionale, e con riferimento alla terapia nell’intervento volto a rimuovere la causa della patologia, anche, e di norma, attraverso la somministrazione di medicinali e quanto, poi al rilascio di certificati, nella redazione di dichiarazioni relative allo stato di salute del paziente fidefacenti in quanto provenienti da soggetto appositamente abilitato. L’anamnesi, la diagnosi e la terapia negli ambiti sovra indicati sarebbero attività, perciò, precluse all’osteopata in quanto riservate esclusivamente al medico; 6. non integra il reato di esercizio abusivo della professione medica il praticare messaggi al puro scopo di mantenere in perfette condizioni fisiche il corpo (come nell’ipotesi di massaggi praticati sugli atleti o di massaggi estetici praticati negli istituti di bellezza); 7. non si può affermare che la manipolazione implicando ovviamente il contatto con il corpo del paziente, sia, per ciò solo, riservata ai medici abilitati e ciò a maggior ragione nel caso dei messaggi nei quali si sostanzia l’intervento osteopatico in quanto sono talmente blandi e leggeri da essere obiettivamente inidonei, qualora non producano il beneficio sperato, ad arrecare danni di sorta al paziente; 8. non si può affermare che la tecnica del massaggio e del trattamento osteopatico (costituito da una speciale tecnica di manipolazione degli elementi ossei del corpo) rientrino nel campo di esercizio della scienza medica in quanto debbono essere ritenute pratiche ausiliarie prive di statuto o di ordinamento legale che non si sovrappongono all’ambito proprio della medicinain quanto il compimento dell’osteopatia viene tutelato direttamente dagli artt. 35, I comma, e 41 della Costituzione. Codeste asserzioni sono contenute nella sentenza emessa dalla Pretura di Trento in data 27.09.95 con la quale è stato assolto un osteopata, imputato del delitto di cui all’art. 348 CP perché essendo privo dell’apposita abilitazione esercitava la professione medica effettuando trattamenti osteopatici, massaggi e prescrivendo farmaci idonei alla relativa terapia. Il Pretore con riferimento alla contestata prescrizione di farmaci ha ritenuto, inoltre, che per i medicinali omeopatici non è richiesta alcuna ricetta medica e, quindi, possono essere esitati dal farmacista a chiunque, come i normali prodotti “da banco” e ciò in considerazione del fatto che si deve dedurre dalla volontà del legislatore la non obbligatorietà della ricetta per i farmaci omeopatici perché palesemente innocui per la minima presenza di principi attivi potenzialmente pericolosi per la salute; 9. pratiche rientranti nella cosiddetta medicina alternativa possono essere svolte anche da chi non abbia la laurea in medicina e chirurgia a condizione che costui non le ponga in essere qualificandosi come medico e, comunque, compiendo atti “propri” e “tipici” della professione medica, quali ad esempio il rilascio di ricette e la prescrizione di farmaci poiché, in questo caso è configurabile il reato di esercizio abusivo della professione medica di cui all’art. 348 CP36. Tra l’altro secondo la Cassazione il rilascio di ricette e la prescrizione di farmaci mantengono il loro carattere di “atto proprio” della professione medica anche se i medicinali prescritti rientrano tra quelli liberamente venduti in farmacia. Si osserva che la pronuncia dalla quale è stato estrapolato l’assunto richiamato è del 2005 ed è relativa ad un caso nel quale un esperto naturopata ed iridologo, qualificandosi come medico, aveva rilasciato ricette su carta intestata dello studio con riferimento a medicinali che non richiedevano la prescrizione del medico. Sull’attività di iridologo la giurisprudenza di merito aveva già avuto modo di pronunciarsi dieci anni prima. La Pretura di Gela con la sentenza del 16 gennaio 1995 aveva stabilito che commette il delitto di cui all’art. 348 CP “chi pratica l’iridologia, compiendo atti tipici ed esclusivi del medico, come visitare pazienti, diagnosticare una malattia e suggerire una cura. Le considerazioni in tema di iridologia contenute nella sentenza della Cassazione del 2005 sono state poi recepite anche dal Tribunale di Casale Monferrato il quale, con una pronuncia del 2008, ha assolto un osteopata accusato di aver esercitato abusivamente attività paramediche osteopatiche praticando manipolazione e digitopressione senza essere in possesso della speciale abilitazione dello Stato e senza il controllo dello specialista ortopedico e del medico fisiatra. In particolare, il Tribunale era giunto alla conclusione assolutoria per aver accertato nel caso di specie che nessuna delle persone sentite aveva dichiarato che l’osteopata si fosse presentato loro come medico, che questi aveva eseguito massaggi e trattamenti superficiali e non invasivi, che non risultava nell’insegna apposta all’esterno dello studio che vi fosse alcun riferimento alla professione medica o al titolo di dottore, e che non era emerso né che l’osteopata avesse formulato diagnosi in senso proprio comunicando ai propri clienti le malattie di cui erano affetti né che avesse mai somministrato farmaci. Dall’analisi in concreto degli atti compiuti dall’osteopata sui suoi clienti era emersa, dunque, la prova del compimento da parte dello stesso di atti non compresi nell’attività medica. In senso conforme si è pronunciato anche il Tribunale di Parma con la sentenza n. 267 del 01.04.2010 con la quale ha assolto un osteopata dal delitto previsto dall’art. 348 CP per aver esercitato abusivamente la professione di medico sostituendosi a questi per diagnosticare patologie e prescrivere cure ai propri pazienti, nonché la professione sanitaria riabilitativa di fisioterapista esercitata in assenza di titolo abilitante. In essa era stato evidenziato che le risultanze processuali avevano dimostrato che l’osteopata accusato non aveva posto in essere alcuna di quelle attività riservate alla professione medica, che si era sempre presentato ai clienti come osteopata, che non risultava nell’insegna posta all’esterno dello studio che vi fosse alcun riferimento alla professione medica, che non vi era prova sul fatto che l’imputato avesse formulato diagnosi in senso proprio o somministrato farmaci e ancora che l’osteopata si limitò a compiere una mera valutazione della loro postura esercitando sul loro corpo delle digitopressioni o delle leggere manipolazioni; 10. debbono considerarsi lecite e consentite tutte quelle attività nuove rispetto alle professioni protette sorte a seguito dall’evoluzione scientifica e tecnologica senza con ciò dover dilatare gli ambiti delle categorie riconosciute tanto da dover includere nella riserva loro spettante, attività solo analoghe, complementari, parallele o ausiliari rispetto alle professioni protette. Detta conclusione -così come quelle contenute nei predetti punti n. 5 e 7- è stata ricavata dalla sentenza pronunciata dal Tribunale di Genova in data 23.07.2003 il quale ragionando sulla natura dell’osteopatia ha assolto un osteopata al quale era stato contestato il delitto di cui all’art. 348 CP per avere, pur privo dell’abilitazione svolto attività medica. Con tale provvedimento il magistrato genovese ha sottolineato che l’osteopatia è un’attività diretta a determinare sollievo e beneficio a soggetti affetti da patologie mediche e consiste in una pratica complementare ed ausiliaria rispetto a quella medica che, se praticata nel rispetto delle finalità e delle metodologie sue proprie, non invade in alcun modo gli ambiti della professione medica e perciò per il suo esercizio non è necessaria l’abilitazione statale. Il Tribunale di Genova ha poi evidenziato che la pratica dell’osteopata è diversa dalla professione medica sia sotto il profilo delle finalità che le ispirano sia sotto il profilo dei trattamenti utilizzati per il compimento di tali finalità. Il Giudice genovese ha spiegato, innanzitutto, che detta attività a differenza di quella medica non è diretta all’eliminazione di un sintomo in quanto essa mediante la palpazione e leggeri massaggi, tende al potenziamento delle strutture corporee sane in modo tale da esaltare la capacità di compenso del singolo soggetto per consentirgli di pervenire ad un riequilibrio complessivo. Con la sentenza di cui trattasi è stata evidenziata, inoltre, anche la differenza che sussiste tra “anamnesi” medica e “analisi” osteopatica. In particolare è stato chiarito che se è vero che entrambe sono atti necessariamente preliminari fondati sulla raccolta per iscritto di dati è altrettanto vero che l’analisi osteopatica a differenza dell’anamnesi medica ha per oggetto il solo paziente e l’individuazione degli schemi posturali dallo stesso adottati per ridimensionare attraverso il ripristino manuale delle micro mobilità la risposta organica funzionale dell’individuo. Pertanto, mentre l’anamnesi medica è funzionale alla formulazione di una diagnosi medica, l’analisi osteopatica la presuppone. La diagnosi medica, quindi, costituisce il punto di partenza delle valutazioni dell’osteopata, il quale dopo aver preso atto della malattia in essa indicata raccoglierà tutti gli elementi indispensabili diretti esclusivamente all’individuazione dell’intervento riequilibratore più consono e non alla rimozione di quella patologia. Le medesime conclusioni sono state utilizzate dal Pubblico Ministero di Torino il quale in data 31.03.08 ha formulato una richiesta di archiviazione poi, accolta dal Giudice per le Indagini Preliminari in data 01.04.08, nei confronti di un soggetto in possesso del diploma di massaggiatore-massofisioterapista non essendoci elementi certi per ritenere che questi abbia in concreto esercitato la professione medica. Il Pubblico Ministero ha evidenziato in tale provvedimento, infatti, che le schede anamnestiche in sequestro non sembravano delle vere e proprie anamnesi ma delle mere annotazioni riguardanti l’osservazione posturale del paziente e che le attività svolte dall’indagato non erano state esorbitanti rispetto alle sue competenze posto che tutti i testimoni avevano parlato di digitopressioni o leggere manipolazioni. Nessuno aveva, invece, parlato di farmaci o di effettuazione di esami. La pronuncia del Tribunale di Genova è stata menzionata altresì dalla Corte d’Appello di Milano nella sentenza del 15.12.06 n. 3262 con la quale, in riforma della sentenza di condanna del Tribunale di Milano -sezione distaccata di Cassano d’Adda- emessa in data 29.09.05, ha assolto un osteopata che senza aver conseguito la laurea in medicina e superato l’esame di abilitazione alla professione medica aveva sottoposto a visita medica una paziente prescrivendo alla stessa in più occasioni terapie e cure farmacologiche. In tale circostanza il Tribunale ha messo in evidenza il fatto che nella fattispecie esaminata non vi era alcuna diagnosi o prescrizione trattandosi di semplici suggerimenti rivolti al medico anche in ordine all’assunzione di medicinali omeopatici essendo, peraltro, evidente la volontà dell’osteopata di agire in armonia e in sintonia con le diagnosi e prescrizioni proprie del medico curante. Si osserva ancora che nella recente sentenza del 9 maggio 2011 n. 301 il Tribunale di Macerata -sezione distaccata di Civitanova Marche- ha ribadito nuovamente la differenza tra l’osteopatia e l’attività medica, sia nelle finalità perseguite e sia negli stessi sistemi usati per raggiungere ciascuna la finalità propria; da una parte la medicina attraverso la diagnosi di una patologia ha come fine la guarigione del paziente, mentre l’analisi diagnostica che pure interessa l’osteopata (che deve fare attenzione alla diagnosi medica già formulata…) riguarda l’individuazione degli schemi posturali adottati al fine di ripristinare attraverso pressioni manuali molte delicate, la risposta funzionale propria di ciascun individuo; così pure la manipolazione compiuta non mira ad eliminare la patologia ma si limita a sollecitare strutture corporee capaci di ristabilire la compensazione nell’individuo . In particolare, il Tribunale di Macerata ha pronunciato una sentenza di assoluzione nei confronti di un osteopata accusato di avere abusivamente esercitato la professione di osteopata, effettuando visite sui pazienti, esprimendo diagnosi e predisponendo il relativo piano terapeutico, attività per le quali è richiesta la laurea in medicina e chirurgia mettendo in evidenza che in quasi tutte le occasioni esaminate l’imputato aveva compiuto solo atti osteopatici e non atti medici. Dall’istruttoria dibattimentale era, infatti, emerso che la maggior parte delle persone che si rivolgevano presso il suo studio avevano già una diagnosi formulata da un professionista, si erano già sottoposti ad esami (radiografie, tac, risonanze) ed erano in possesso di referti, in quanto sapeva bene che non spettava a lui formulare diagnosi pur conoscendo bene l’anatomia e la fisiologia, era stato accertato, inoltre, che l’osteopata non aveva prescritto terapie mediche né farmaci e non aveva mai rilasciato certificati medici non potendo considerarsi tali i fogli da lui redatti in cui si era limitato a dare dell’analisi osteopatica effettuata con valutazioni posturologiche (valutazione di motilità dei tessuti e delle strutture articolari);. 9. sulla diversità tra attività medica e pratica osteopatica si è pronunciato anche il Tribunale di Casale Monferrato con la sentenza del 19.09.08 n. 285 con la quale ha assolto un osteopata dal reato di esercizio della professione medica. Dall’analisi attenta di tutte le sentenze sovra indicate che -come abbiamo visto- non hanno mai ritenuto integrato il reato di esercizio arbitrario della professione medica da parte di praticava l’osteopatia, è emersa l’importanza del contributo dei consulenti e/o periti nominati dalle parti nel corso del procedimento, i quali illustrando gli atti osteopatici, le finalità dell’osteopatia e spiegando le differenze tra la pratica osteopatica e l’attività medica sono riusciti a far comprendere ai magistrati che per l’esercizio di tale medicina alternativa non è necessario essere in possesso della laurea in medicina e chirurgia perché sono due attività ben distinte. Tutte le decisioni che hanno portato all’assoluzione degli osteopati imputati sono infatti principalmente fondate sulle dichiarazioni rese dai periti o dai consulenti. Non è esercizio abusivo della professione medica anche l’attività di chinesiologia in quanto si limita solamente a favorire il recupero motorio ed il mantenimento e potenziamento muscolare mediante esercizi di ginnastica anche se realizzati tramite macchinari e mezzi dei quali può avvalersi anche il fisioterapista per gli interventi di propria specifica competenza. Non sussiste il reato di esercizio della professione medica nel caso di pratica della pranoterapia se consiste in una semplice imposizione delle mani senza nessuno diretto contatto con il corpo del paziente e quando non si accompagni all’esercizio di atti propri del medico. Tale conclusione è contenuta in una sentenza del 1986 emessa dal Pretore di Verona con la quale ha ulteriormente precisato che la pranoterapia deve essere ritenuta lecita se il pranoterapeuta pur avendola esercitata senza la collaborazione del medico abbia avvertito il cliente che il proprio intervento non è sostitutivo di quello medico e che anche nell’ipotesi di esito positivo del suo intervento il cliente si sottoponga al controllo di un medico. Il Magistrato veronese ha, inoltre, evidenziato che l’osservanza di tale norme di comportamento impedisce il compimento di atti propri della professione medica. Dette raccomandazioni ovviamente possono essere valide, ovviamente, anche per chi esercita l’osteopatia. Le pronunce giurisprudenziali di merito e di legittimità relative al secondo indirizzo giurisprudenziale estendendo il concetto di “atto medico” tendono, invece, a “proteggere” maggiormente la categoria dei medici a scapito di coloro che esercitano professioni alternative non riconosciute giuridicamente, quale l’osteopatia, anche se -come vedremo- liberamente praticabili in base alla scelta del sanitario e del paziente; 10. con riferimento a tale orientamento si segnalano le seguenti considerazioni: a. l’attività medica è genericamente definibile come una professione che si estrinseca nella individuazione e nella diagnosi di patologie con prescrizione di cure e rimedi anche se differenti da quelli ordinariamente praticati con la conseguenza che chi esprima giudizi diagnostici e consigli, ed appresti le cure al malato commette il reato di esercizio abusivo della professione. Codesta affermazione è contenuta in una sentenza della Corte di Cassazione pronunciata nel luglio 2003 che riguarda i rapporti esercizio abusivo della professione medica e chiropratica, attività per certi aspetti simile all’osteopatia. Nella fattispecie esaminata la Corte ha annullato la sentenza con la quale il Tribunale di Verona aveva ritenuto non sussistente il reato di esercizio abusivo sanzionato dall’art. 348 CP contestato a due chiropratici i quali avevano visitato pazienti, predisposto anamnesi, suggerito esami clinici e radiologici, formulato diagnosi mediche e trattamenti terapeutici operato direttamente sui pazienti con manipolazioni, senza la preventiva prescrizione del medico. Nell’annullare la sentenza impugnata la Suprema Corte è giunta, dunque, ad una conclusione rigoristica secondo cui le attività poste in essere dal chiropratico – indubbiamente affini a quelle esercitate dall’osteopata- si sostanzierebbero in atti che, stando alla disciplina vigente, sarebbero riservate esclusivamente al medico. Con la conseguenza che anche l’utilizzo di tecniche e metodiche terapeutiche può ritenersi lecito solo se compiuto da chi ha conseguito la laurea in medicina e chirurgia. b. integra il reato in esame chi eserciti l’attività di omeopata (visitando pazienti, formulando diagnosi e prescrivendo farmaci) senza essere iscritto nell’albo professionale dei medici chirurghi poiché pur avvalendosi di metodi non riconosciuti dalla scienza medica tradizionale è comunque un’attività volta alla diagnosi e alla cura di malattie del corpo umano . Questa affermazione del Tribunale di Reggio Emilia del 2004 accoglie le precedenti osservazioni formulate dalla Suprema Corte di Cassazione. In particolare con una sentenza del 199973 richiamata anche in una successiva sentenza del 200374 era stato precisato che è idonea a costituire la condotta abusiva della professione medica anche quella di coloro che effettuano diagnosi e rilasciano prescrizioni e ricette sanitarie per prodotti omeopatici perché questi atti rientrano nell’esercizio di attività sanitaria che presuppone -per il legittimo espletamento- il possesso di un valido e idoneo titolo. Con la sentenza del 1999 la Corte di Cassazione aveva altresì rilevato che i rimedi omeopatici anche se non riconosciuti dalla Stato non sono vietati e sono perciò rimessi alla libera scelta dell’interessato d’accordo col suo medico curante, dal quale le ricette devono essere redatte per l’acquisto di tali medicinali. La Corte con tale provvedimento aveva precisato, inoltre, che l’attività di omeopata integra il reato di esercizio abusivo della professione medica in quanto si realizza con l’attività diagnostica e quella prescrittiva dei rimedi suggeriti e delle modalità di loro assunzione. Dai predetti presupposti si deduce, pertanto, che l’omeopatia deve ritenersi una attività sanitaria che non può essere praticata in assenza del conseguimento della laurea in medicina, della prescritta abilitazione dello Stato e dell’iscrizione al relativo albo professionale e che i rimedi omeopatici, anche se non riconosciuti dalla scienza ufficiale sono sempre finalizzati alla cura di una patologia sia psichica che fisica e, quindi, la loro prescrizione deve essere riservata alla competenza esclusiva dei medici. Secondo parte della dottrina le conclusioni della sentenza della Cassazione del 2003 che accoglie quelle contenute nella sentenza del 199978 dovrebbero essere, estese ai fini dell’eventuale applicabilità dell’art. 348 CP, anche alle altre medicine non convenzionali prive di riconoscimento giuridico poiché tale provvedimento avrebbe effettuato una sostanziale parificazione dell’omeopatia alle altre pratiche alternative alla medicina ufficiale, con la conseguenza che anche l’esercizio dell’osteopatia in mancanza del titolo di medico comporta la commissione del reato di esercizio abusivo della professione sanitaria. c. deve ravvisarsi il delitto di cui all’art. 348 CP nella condotta di chi esercita l’agopuntura senza essere in possesso dell’abilitazione all’esercizio della professione medica in quanto tale pratica terapeutica “non convenzionale” esige la specifica conoscenza medica poiché essa viene praticata con atti propri della professione medica oltre che per l’attività di diagnosi e di scelta terapeutica della malattia da curare, anche per i suoi intrinseci metodi applicativi che possono definirsi clinici. Non possono essere legittimati, pertanto, gli operatori non medici pur in possesso di un’apposita abilitazione diversa da quella prescritta per l’esercizio dell’agopuntura se la medesima non si limiti alla mera esecuzione dei rimedi terapeutici ma comporti diagnosi e scelte terapeutiche . Le predette considerazioni seppure espresse dalla Suprema Corte di Cassazione in tema di agopuntura possono valere anche per l’osteopatia. Con detta pronuncia è stato evidenziato, infatti, che l’agopuntura, come altre medicine alternative quali “omeopatia”, la “omotossicologia”, la “fitoterapie” ed altre terapie omologhe, è annoverata tra le pratiche terapeutiche “non convenzionali”, che richiedono la specifica conoscenza della scienza medica e che realizzano un attività sanitaria consistente, cioè, in una diagnosi di un’alterazione organica o di un disturbo funzionale del corpo o della mente e nell’individuazione dei rimedi e nella somministrazione degli stessi da parte dello stesso medico o da personale paramedico sotto il controllo del medico. Tali considerazioni sono simili ad una precedente pronuncia della Corte di Cassazione del 1982 secondo cui è necessario il conseguimento della laurea in medicina e chirurgia per esercitare l’agopuntura poiché anche se detta pratica non costituisce materia di insegnamento nelle università italiane richiede necessariamente la conoscenza della medicina o della chirurgia per formulare l’esatta diagnosi, nonché per evitare conseguenze dannose al paziente. Sulla base di queste ultime sentenze si deduce ancora che l’esercizio delle professioni cosiddette attività “di confine” con l’attività medica, nelle quali rientra l’osteopatia, è riservato solo a coloro che, oltre ad aver conseguito il titolo della laurea in medicina e superato gli esami per l’abilitazione, risultino iscritti negli albi prescritti d. costituisce esercizio dell’arte sanitaria la manipolazione del corpo a scopo curativo in quanto non può escludersi la pericolosità del metodo di cura adottato, le cui reazioni sulla persona del paziente, in relazione al morbo di cui è affetto, possono essere valutate soltanto da chi risulta abilitato all’esercizio della professione sanitaria, onde il metodo di cura medesimo determina, fra l’altro, la necessità di praticarla sotto il controllo di un medico. e. è idonea ad integrare la predetta condotta abusiva di cui all’art. 348 CP se l’attività del pranoterapeuta se non si limiti all’imposizione delle mani ma faccia precedere tale operazione da approfonditi colloqui su aspetti intimi della vita dei pazienti onde diagnosticare le problematiche di natura psicologica eventualmente all’origine dei disturbi da essa denunciati in quanto costituisce un’attività di diagnosi e di terapia che sono di competenza esclusiva dello psicologo e comunque può agevolmente essere ricompresa tra le attività della professione medica, soprattutto quando sia diretta alla guarigione di vere e proprie malattie. E’ evidente, quindi, che in assenza di una normativa sul punto il procedimento conoscitivo diretto ad accertare le condizioni patologiche di un malato che ha bisogno di essere assistito tramite diagnosi è riservato unicamente al medico o eventualmente allo psicologo. E’ chiaro, quindi, alla luce dei predetti rilievi che, se si dovesse seguire il secondo orientamento giurisprudenziale, all’osteopata sarebbe vietato il compimento anche di uno solo degli atti che la giurisprudenza qualifica “tipici” e/o “caratteristici” della professione medica. Costituisce, infatti, principio acquisito in giurisprudenza quello secondo cui, ai fini della sussistenza del delitto di esercizio abusivo dì una professione, non è necessario il compimento di una serie di atti riservati ad una professione per la quale sia richiesta una speciale abilitazione, ma è sufficiente l’espletamento di un’isolata ed unica prestazione professionale. Tra l’altro il predetto indirizzo giurisprudenziale che potremmo definire “protezionistico” della professione medica sarebbe in linea con la “definizione europea di atto medico” pubblicata nel 2009 dall’’Unione Europea dei Medici Specialisti (UEMS) secondo la quale l’atto medico ricomprenderebbe tutte le attività professionali, ad esempio di carattere scientifico, di insegnamento, di formazione, educative, organizzative, cliniche e di tecnologia medica, svolte al fine di promuovere la salute, prevenire le malattie, effettuare diagnosi e prescrivere cure terapeutiche o riabilitative nei confronti di pazienti, individui, gruppi o comunità, nel quadro delle norme etiche e deontologiche. L’atto medico è una responsabilità del medico abilitato e deve essere eseguito dal medico o sotto la sua diretta supervisione e/o prescrizione. Inoltre, la Federazione Nazionale dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri in un documento del 18 maggio 2002 93 con la quale ha chiesto al Parlamento di approvare una legge che disciplini esclusivamente la pratica della medicina complementare, ha precisato che l’esercizio dell’osteopatia e’ da ritenersi a tutti gli effetti atto medico. Con il medesimo atto è stato, peraltro, chiarito che quanto attiene alla diagnosi e alla cura, ovvero l’atto medico, deve avere un’adeguata garanzia nel superiore interesse della salute; questa garanzia è data dalle conoscenze e dalla competenza di chi esercita attività rivolta alla tutela della salute; condizioni che lo Stato controlla attraverso l’iter degli studi universitari, la laurea, l’abilitazione post lauream, nonché l’iscrizione all’albo tenuto dall’Ordine professionale. Tutte queste divergenti posizioni in ordine alla classificazione o meno dell’osteopatia come atto medico da parte non solo della giurisprudenza di legittimità e di merito ma anche degli stessi operatori sanitari non consentono all’osteopata di esercitare “tranquillamente” le sue attività perché sino a quando non ci sarà un loro riconoscimento giuridico correrà sempre il rischio di essere accusato di esercitare abusivamente la professione del medico. Si osserva, inoltre, che il riconoscimento di tale professione -al pari di qualsiasi altra pratica terapeutica alternativa non prevista dall’ordinamento giuridico- deve essere effettuato unicamente dallo Stato. Ecco perché la Corte Costituzionale con la sentenza n. 353/2003 ha dichiarato costituzionalmente illegittima la legge 24 ottobre 2002, n. 25, della Regione Piemonte disciplinante le “pratiche terapeutiche e le discipline non convenzionali”, ivi compresa l’osteopatia. In particolare, la Corte con detta pronuncia ha sottolineato che la potestà legislativa regionale in materia di professioni sanitarie deve rispettare il principio, già vigente nella legislazione statale, secondo cui l’individuazione delle figure professionali, con i relativi profili ed ordinamenti didattici, deve essere riservata allo Stato. Tale principio deve trovare applicazione anche nel caso di nuove pratiche terapeutiche e di discipline alternative. La legge della Regione Piemonte avendo istituito un registro dedicato sia agli operatori medici sia a quelli non medici, prevedendo percorsi formativi di durata pluriennale, nonché il rilascio di titoli professionali ha inciso su aspetti principali della disciplina degli operatori sanitari e, quindi, non ha rispettato il principio fondamentale di cui all’art. 117 della Costituzione che riserva allo Stato la individuazione e definizione delle varie figure professionali sanitarie. Si rileva, altresì, che, ai fini della configurabilità del reato di esercizio abusivo della professione medica in capo all’osteopata è necessario oltre all’esercizio in concreto di atti medici anche la consapevolezza di esercitare tale professione in mancanza del titolo abilitativo. Tra l’altro, la sussistenza del delitto in oggetto non può essere esclusa nel caso in cui “l’abusiva” prestazione “professionale” sia stata del tutto gratuita in quanto è irrilevante l’eventuale scopo di lucro e, in genere, qualsiasi movente di carattere privato. L’osteopata che ha posto in essere atti di competenza esclusiva del medico non può neppure invocare come causa di non punibilità il consenso dell’avente diritto previsto dall’art. 50 C.P. Dato che il delitto di esercizio abusivo della professione lede un interesse pubblico, quello della salute collettiva, il quale per sua stessa natura è indisponibile; perciò l’eventuale consenso del cliente destinatario della prestazione abusiva non ha nessun valore scriminante. Il consenso del diretto interessato seppur non idoneo a discriminare una condotta integrativa del reato di esercizio abusivo di una delle cd. “professioni protette” rappresenta, comunque, un presupposto imprescindibile di legittimità del trattamento osteopatico -in quanto esso al pari di qualsiasi altro trattamento sanitario- non può che essere volontario in virtù del diritto inviolabile alla libertà personale, fisica e morale e all’autodeterminazione del paziente di cui agli artt. 13,comma I,102 e 32, comma II, della Costituzione (salva l’eccezione dei trattamenti obbligatori tassativamente previsti dalla legge 103). Il Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB) in un documento approvato all’unanimità nella seduta plenaria del 18 marzo 2005 ha esaminato proprio il problema del consenso informato delle c.d. medicine alternative, identificate nelle pratiche la cui efficacia non è accertabile con i criteri adottati dalla medicina scientifica 104 , quale è, appunto, l’osteopatia. Nel preambolo di questo atto il Presidente del Comitato ha sottolineato la valenza etica del predetto consenso informato precisando che oggi si è ormai definitivamente affermata la consapevolezza che il fondamento dell’eticità di ogni pratica medica –compresa quella non convenzionale- non può che essere (tranne che in casi estremi) quello dell’accordo dialogico e competente tra il paziente e il terapeuta. Ecco perché al dovere del medico di dare al paziente tutte le informazioni indispensabili perché egli possa assumere in piena autonomia le proprie decisioni vi è l’onere del malato di trasmettere al medico curante tutte le informazioni possibili in suo possesso per garantire una corretta diagnosi e un’adeguata indicazione terapeutica. Nel documento in oggetto è stato, inoltre, precisato che il diritto del paziente all’autonomia ed alla libertà di cura sia che s’indirizzi verso la medicina scientifica, sia che si concretizzi nel ricorso a trattamenti alternativi è un diritto primario che spetta a ogni cittadino e non deve mai concretizzarsi in pretese incompatibili con la dignità e i diritti della persona assistita e con il rispetto dovuto alla posizione professionale del medico il quale, di fronte al proprio paziente, ha sempre il dovere di agire secondo scienza e coscienza. Con tale atto la libertà di cura è stata riconosciuta anche al medico a condizione che venga esercitata nella prospettiva fondamentale della tutela della salute del malato con la conseguenza che il medico deve proporre in primis al paziente il ricorso a rimedi di comprovata efficacia. Soltanto nelle ipotesi in cui questi mancassero del tutto o si rivelassero nel caso concreto inefficaci (o comunque a minima probabilità statistica di efficacia) o comportassero controindicazioni vistose, o venissero comunque rifiutati espressamente dal paziente adeguatamente informato, potrebbe apparire lecito, col necessario consenso di questo, il passaggio verso altre terapie, purché però mai frutto di scelte soggettive e/o arbitrarie del terapeuta: è principio bioetico essenziale quello per il quale la libertà di cura debba sempre coniugarsi con la posizione di garanzia che l’ordinamento assegna al medico rispetto al paziente assistito. Nel documento in parola il Comitato ha, inoltre, raccomandato ai medici di prescrivere nel caso di pazienti minori o incapaci sempre l’applicazione delle terapie scientificamente convalidate anche se vi è richiesta da parte dei loro genitori o tutori di indirizzarsi verso medicine alternative, a meno che sussistano patologie di minimo rilievo, che potrebbero anche suggerire l’ipotesi di non procedere a trattamenti terapeutici, nell’attesa di una più che probabile guarigione spontanea da parte del malato. Il Comitato per la Bioetica, tra l’altro, ha precisato, che in presenza di malattie sicuramente gravi, per le quali esistono rimedi conosciuti ed efficaci, non appare in alcun caso lecito, né giuridicamente, né deontologicamente, né bioeticamente che il medico non effettui gli accertamenti indicati dalla medicina scientifica e non ponga in essere ogni sforzo per chiarire al paziente le conseguenze di un suo eventuale rifiuto di quelle cure che tale medicina giudica utili o addirittura indispensabili. Il CNB è quindi unanime nel ritenere che in tali casi le pratiche mediche non fondate scientificamente non possano sostituire quelle della medicina scientifica. In base ai rilievi del Comitato Nazionale della Biotica è evidente che non vi può essere differenza tra il consenso informato relativo alla Medicina Ufficiale e quello delle Medicine Alternative. Ne consegue, quindi, che la giurisprudenza sul consenso informato elaborato dalla giurisprudenza in tema di medicina ufficiale può essere applicata anche per risolvere le questioni sui consensi prestati al trattamento osteopatico. La Suprema Corte di Cassazione con una sentenza del 2001 ha precisato che la mancanza del consenso informato del malato o la sua invalidità per altre ragioni determina l’arbitrarietà del trattamento sanitario e la sua rilevanza penale in quanto compiuto in violazione della sfera personale del soggetto e del suo diritto di decidere se permettere interventi estranei sul proprio corpo . In mancanza del consenso l’attività sanitaria deve essere, perciò, considerata sicuramente arbitraria e si dovrebbe configurare in questi casi anche in capo all’osteopata il reato di violenza privata prevista dall’art. 610 CP secondo il quale è punito con la reclusione chiunque con violenza o minaccia costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa . La Cassazione con una successiva sentenza del 2005 ha, inoltre, evidenziato che non può considerarsi valido neppure il consenso informato prestato dal paziente se lo stesso sia stato indotto in errore circa le qualità dell’operatore non abilitato ad esercitare la professione medica indipendentemente dalle sue effettive o presunte capacità professionali. La Corte con tale provvedimento aveva annullato la sentenza di appello nella parte in cui si era affermato non sussistente il reato di lesioni personali colpose e rideterminato la pena per il solo reato di esercizio abusivo della professione medica. Le conclusioni di detta sentenza anche se relativa ad un intervento di implantologia odontoiatrica possono valere anche per l’osteopatia. Può succedere, infatti, che un osteopata pur avendo ricevuto dal proprio paziente il consenso esclusivamente per trattamenti osteopatici ponga invece in essere consapevolmente in concreto solo atti medici che poi finiscono per ledere il paziente. In questo caso, quindi, l’osteopata potrebbe essere ritenuto responsabile, se accertati, sia del reato di esercizio abusivo della professione medica che del delitto di lesioni conseguenti al compimento di atti medici sui quali non vi era stata alcuna espressa forma di consenso. E’ stato, inoltre, sottolineato dalla giurisprudenza che se il medico in assenza di necessità ed urgenza sottopone il malato ad intervento più grave entità rispetto a quello meno cruento e comunque di più lieve entità del quale lo abbia informato preventivamente e che solo sia stato da quegli consentito realizza il reato di lesioni personali volontarie e non colpose, ed è irrilevante sotto il profilo psichico la finalità pur sempre curativa della sua condotta, ed è per tali motivi che il medico in siffatte ipotesi risponde, se da quelle lesioni deriva la morte, del reato di omicidio preterintenzionale e non di quello colposo. In questi casi, perciò, la condotta dei sanitari verrà punita più gravemente. Ciò può accadere nel caso in cui un osteopata compia in completa assenza di necessità e di urgenza un atto terapeutico diverso da quello per il quale vi era stato il consenso del paziente senza avvisarlo preventivamente dell’entità e dei rischi del più grave atto osteopatico eseguito. Tale condotta potrebbe, quindi, determinare oltre al reato di violenza privata ex art. 610 CP anche quello di lesioni personali volontarie o di omicidio preterintenzionale in base al predetto orientamento giurisprudenziale . Con una successiva sentenza pronunciata dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite nel 2009 è stato precisato però che se il medico sottopone il proprio malato ad un trattamento diverso da quello in relazione al quale era stato prestato il consenso informato ma tale intervento si è concluso con esito favorevole, nel senso che il paziente ha ottenuto un apprezzabile miglioramento delle condizioni di salute, e in mancanza di indicazioni contrarie da parte del paziente tale condotta non può avere nessuna rilevanza penale né sotto il profilo del delitto di lesioni personali volontarie di cui all’art. 582 CP né sotto quello del reato di violenza privata118. Alla luce di quanto sopra, quindi, se dal trattamento osteopatico derivano delle lesioni o da queste consegue la morte del paziente ma vi era stato il consenso informato del medesimo, nel primo caso l’osteopata potrebbe essere accusato di lesioni personali “colpose” di cui all’art. 590 CP e nel secondo caso di omicidio “colposo” ex art. 589 CP purché si accerti in concreto una colpa da parte dell’osteopata; se invece non vi era stato alcun consenso del malato l’osteopata al diverso trattamento e questo ha avuto esito infausto l’osteopata potrà rispondere di lesioni personali” volontarie” o di omicidio “preterintenzionale”. Le conseguenze non sono di scarsa rilevanza posto che nel caso di lesioni personali colpose e di omicidio colposo le pene sarebbero sicuramente più lievi rispetto a quelle previste per le lesioni personali dolose e per l’omicidio preterintenzionale. Il Comitato Nazionale per la Bioetica sempre nell’importante documento sovra indicato ha evidenziato che il ricorso a medicine alternative può essere anche obiettivamente e specificamente nocivo per i pazienti precisando, inoltre, che il malato può essere leso anche per il fatto che l’uso di diagnostiche e di terapie alternative può ritardare inutilmente e a volte purtroppo irrimediabilmente il ricorso a più rigorose ed efficaci diagnosi e terapie di carattere scientifico. Da ciò si deduce, quindi, che la condotta dell’osteopata che può eventualmente determinare un danno al paziente con conseguente risarcimento può essere non solo commissiva, ovvero quella che si concretizza mediante il compimento di trattamenti osteopatici o di atti riservati al medico con o senza consenso del paziente, ma anche omissiva per aver, ad esempio, sottratto il malato ai trattamenti collaudati della Medicina ufficiale. Sul punto si osserva che la giurisprudenza di merito ha precisato che in presenza di interventi medici il rapporto di causalità con l’evento (nel caso di specie lesioni o morte del paziente) va ravvisato adottando un criterio di rilevante probabilità e non di certezza assoluta . La Cassazione ha avuto modo di segnalare che sussiste sempre un nesso di causa tra la condotta imperita, negligente o imprudente del sanitario (ovvero la cd condotta colposa) il quale non abbia disposto cautele ed accertamenti che avrebbero portato ad un sollecito intervento chirurgico su un infortunato e, l’evento mortale che ne è seguito, quando tale intervento, anche se non avrebbe salvato con certezza si può sostituire quello della probabilità di raggiungere tale scopo. Secondo la giurisprudenza il criterio della certezza si può sostituire quello della probabilità in presenza di serie ed apprezzabili possibilità, ma quando è in gioco la vita umana anche limitate probabilità di successo sono sufficienti a configurare la necessità di operare. E’ stato ancora precisato dalla Corte di Cassazione che bastano serie ed apprezzabili probabilità di successo per salvare la vita del paziente anche se non c’è la piena certezza . Inoltre, sussiste il reato di omicidio colposo anche quando l’opera del sanitario correttamente e tempestivamente intervenuta avrebbe avuto non già la certezza bensì serie ed apprezzabili possibilità di successo, tali che la vita del paziente sarebbe stata probabilmente salvata. Alla luce di quanto sopra, pertanto, se un paziente che aveva espressamente rinunciato alle terapie della medicina convenzionale e ritenuto di avvalersi delle indicazioni terapeutiche dell’osteopatia su prescrizione del medico è poi peggiorato o deceduto a seguito della cura, l’osteopata anche se il paziente era stato adeguatamente informato potrà essere ritenuto responsabile per il reato di lesioni colpose o di omicidio colposo anche sulla base della “perdita di probabilità favorevoli” del malato. a cura di Fabrizio Mastro (avvocato del Foro di Torino) con la collaborazione dell’avv. Caterina Biafora Stop all’osteopata nel centro medico Tar: “Non è professione sanitaria” L’Ausl aveva dato parere negativo all’impiego di un professionista che aveva ottenuto il diploma nel Regno Unito, perché la normativa sanitaria nazionale prevede che le patologie osteoarticolari siano trattate solo da medici e fisioterapisti. Per il Tar la decisione non va contro i principi dell’Unione europea Col suo diploma di livello universitario di osteopata, conseguito nel Regno Unito, voleva lavorare presso il Centro medico Sant’Apollonia di Parma. Avrebbe eseguito sui pazienti attività di manipolazione dei muscoli e dello scheletro per curare varie patologie senza l’impiego di farmaci o della chirurgia. Ma, nel maggio 2011, è arrivato lo stop dell’Ausl di Parma: la normativa italiana non contempla la figura dell’osteopata come professionista sanitario. Presso un centro medico convenzionato possono operare sui problemi di natura osteoarticlare solo il medico e il fisioterapista, titoli sanitari riconosciuti, quindi l’attività dell’osteopata è stata segnalata come non legittima e al Centro non è stata concessa l’autorizzazione a impiegare questa figura. Contro questa decisione l’osteopata laureato all’estero ha presentato ricorso al Tar, chiedendo all’Ausl il risarcimento dei danni. I giudici del tribunale amministrativo hanno confermato la decisione dell’Azienda sanitaria locale di Parma, respingendo il ricorso e condannando il ricorrente al pagamento delle spese legali. L’osteopata aveva anche chiesto che, se gli atti impugnati fossero ritenuti conformi alla normativa nazionale, il ricorso venisse rinviato alla Corte di giustizia dell’Unione europea. L’impossibilità di operare in Italia sarebbe infatti lesiva della libertà di stabilimento (intraprendere un’attività economica in un qualsiasi Paese dell’Unione europea) o di prestazione di servizi. Il collegio di giudici presieduto da Francesco Gambato Spisani scrive che “il provvedimento impugnato non prende posizione sulla possibilità per gli osteopati come il ricorrente di poter esercitare la loro attività sul territorio nazionale; si limita invece ad escludere che tale attività possa essere esercitata con una precisa modalità, ovvero all’interno di una struttura sanitaria disciplinata dal DPR 14 gennaio 1997, in quanto solo gli esercenti professioni o arti sanitarie propriamente dette, ovvero riservate agli iscritti ad un albo, possono lavorare in tale ambito. In tali termini, che si tratti di attività libera e lecita, come pare essere nel nostro ordinamento quella dell’osteopata, non rileva; rileva soltanto che tale attività non costituisca professione o arte sanitaria, e ciò nel caso di specie è del tutto pacifico”. Il collegio ritiene inoltre che la normativa sanitaria nazionale sia conforme al diritto dell’Unione europea e che quindi che non vi siano gli estremi per promuovere il rinvio alla Corte di giustizia europea. Viene citata una sentenza della Corte del 1990 per un caso analogo, quello di un cittadino francese che intendeva far valere nel proprio Paese il titolo di osteopata ottenuto nel Regno Unito: “(…) la professione di osteopata – si legge nella sentenza del Tar – continua ad essere una professione non armonizzata, nel senso che nessuna direttiva europea, nemmeno la recente 2005/36 sulle professioni, si è preoccupata di definirne i requisiti comuni a livello di Unione. Si tratta pertanto di una attività che le legislazioni nazionali possono disciplinare così come credono, perché il diritto europeo se ne disinteressa. In Italia, come si è detto più volte, essa è una professione priva di albo riservato (…)”. (maria chiara perri).

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